La relazionalità delle cose: oggetti narrati e narratori di storie, saperi e significati
Panel 26 / Quarto Convegno Nazionale SIAC “Il ritorno del sociale”, Sapienza Università di Roma, 21-22-23 settembre 2023
Proponenti: Margherita Valentini (Università di Torino), Anna Bottesi (Università di Torino)
Abstract
Davanti a una ‘cosa’ (De la Cadena, 2015), esposta dentro una vetrina museale o presente all’interno del proprio contesto quotidiano, siamo in grado oggi di osservare la relazionalità che rappresenta e di cui partecipa? Un oggetto, infatti, è in grado di racchiudere e, contemporaneamente, raccontare diverse storie e relazioni in continua formazione (Appadurai (1986) e Kopytoff (2005) sono tra i primi a parlarci della biografia culturale delle cose e del loro potere multivocale e polisemico). I vissuti di chi lo ha prodotto, di chi lo ha comprato/preso/scambiato/rubato – gli oggetti extraeuropei sono uno dei tanti esempi su cui ci piacerebbe ragionare – e di chi oggi lo possiede o lo studia fanno parte dell’oggetto e del sapere che ingloba. Le cose sono a tutti effetti dei testimoni di relazioni tra luoghi e saperi eterogenei, a volte lontani geograficamente a volte solo temporalmente: una materialità che non si risolve stoicamente nel racconto di una narrazione ma che continua a raccontare storie e avvenimenti e si fa portavoce di significati che si stratificano addosso a seconda di chi lo manipola. L’obiettivo del panel è quello di provare a sviluppare l’idea della ‘relazionalità degli oggetti’, attraverso riflessioni generali o casi specifici che mettono al centro gli oggetti e i loro racconti.
Keywords: patrimonio, cose, multivocalità, polisemicità, relazionalità
Lingue accettate: Italiano / English / Français / Español / Português
Sessione I
Venerdì 22/9/2023, ore 14.30-16.15, aula II Facoltà, Primo piano
Irene Borchi (borchi.irene@gmail.com) (Museo Contadino della Bassa Pavese), Il silenzio parlato dagli oggetti. Catalogo etnografico di un Museo Contadino
Il Museo Contadino della Bassa Pavese (Pv), attraverso la ricomposizione delle storie di vita degli abitanti del borgo, ha “restituito” gli oggetti museali alla popolazione (progetto realizzato in anni 2014-15). Il Museo si è fatto portavoce della memoria passata e futura della comunità locale: non semplice esposizione di “attrezzi d’una volta”, obsoleti ed avulsi dalle attività quotidiane, bensì parte attiva del paese ed istituto capace di coinvolgere gli abitanti. Mettendo in luce la relazione intercorsa fra l’oggetto esposto e il proprietario, si è restituita nuova vita all’oggetto ricomponendone la memoria. Che rapporto c’è fra l’oggetto e la relazione? L’oggetto è la relazione, come ha messo in evidenza l’antropologo Mario Turci, la sostanza delle cose è negli oggetti. Tuttavia i numerosi musei etnografici sorti in Italia assomigliano più a musei di storia di cultura materiale. La metodologia etnografica indaga invece le umanità che stanno nella relazione, ma come possiamo documentarle? La relazione è inenarrabile, il museo di etnografia sembra difficile. Per questo motivo, il Museo ha inteso con questo proposito legare le vite degli abitanti agli oggetti attraverso una catalogazione etnografica narrativa: ricercare la relazione fra l’uomo e l’oggetto, trasformare il patrimonio passivo in patrimonio attivo, produrre un patrimonio immateriale legato a quello materiale. Manca qualcosa ad animare questi luoghi colmi di oggetti, l’umanità, che si è cercata con tale progetto.
Stefano Porretti (stefano.porretti@unito.it) (Università di Torino), Oggetti “miscredenti”: la collezione nuristana del Museo di Antropologia ed Etnografia di Torino
Il Museo di Antropologia ed Etnografia di Torino (MAET) rappresenta un classico esempio di museo universitario fondato per sostenere e promuovere la ricerca. Sebbene il suo controverso passato, legato soprattutto alla figura del fondatore Giovanni Marro, abbia lasciato dei vuoti, forse incolmabili, sulla storia delle collezioni, ad oggi il Museo svolge delle attività di ricerca sul patrimonio per contestualizzarlo e valorizzarlo. In questo lavoro di riordino e ricostruzione storica, il MAET ha individuato un nucleo di oggetti provenienti dal Nuristan – regione dell’Afghanistan occidentale confinante con il Pakistan – che ha permesso di avviare uno studio dei contesti di produzione. Il corpus comprende vari oggetti in legno d’uso quotidiano – tra cui contenitori per uso alimentare, mortai, cucchiai, un imbuto e uno sgabello –, un’arpa, un paio di stivaletti in cuoio e alcuni abiti e tessuti riconducibili alla cultura materiale dei kafiri (dall’arabo “miscredenti”, “infedeli”): un gruppo di società pastorali dell’alto Hindu Kush che praticavano, nella culla dell’Islam, delle religioni politeiste. Lo scopo di questo intervento è illustrare i principali tratti delle culture pre-islamiche del Nuristan partendo dall’analisi degli oggetti, che conservano delle narrazioni e dei significati impliciti utili a comprendere alcuni aspetti sociali, politici e religiosi di queste comunità.
Michele Claudio Domenico Masciopinto (michele.masciopinto@unifg.it) (Università di Foggia), Materialità liquide: oggetti marittimi per raccontare il rapporto tra l’uomo e il mare
Il presente contributo parte da un’esperienza di allestimento di un museo del mare all’interno delle stanze di un faro locato in una piccola frazione marittima della Puglia. L’obiettivo riguardava la capacità di comprendere il mare dal punto di vista delle genti che lo abitano e lo vivono quotidianamente; per tale motivo, lo scrivente si è imbarcato sui pescherecci, immergendosi nell’ambiente marino tra barche, reti, strumenti di navigazione. L’andar per mare ha permesso il rovesciamento del punto di vista di osservazione etnografica, focalizzando lo sguardo non sulle implicazioni di vivere “sul mare”, ma “con il mare”, ripercorrendolo, osservandolo, sognandolo come se lo guardassimo per la prima volta. Storie di mari e uomini che emergono non solo dall’ascolto di testimonianze, ma anche attraverso gli oggetti: quotidiani o inconsueti, ordinari o strani, dotati però di voce ed in grado di raccontare cos’è il mare. L’allestimento museale si manifesta agli occhi del visitatore come un luogo privilegiato dove rilevare la vita sociale delle cose ove ricostruire percorsi di identità, memoria e narrazione, cogliendo le vie con il quale esprimere non solo la storia degli oggetti stessi, ma anche il loro senso e il loro significato nella relazione con la gente di mare. Un punto di partenza basato su cose vitali, piccole, forse insignificanti o poco importanti, ma capaci di condurre il nostro sguardo verso una storia comune che coinvolge differenti mari e diverse genti.
Suzenalson da Silva Santos (mkindio@gmail.com) (Universidade Federal do Ceará/Museu Indígena Kanindé), “Coisas e Novidades”: Classificação dos Objetos Museológicos no Museu Indígena Kanindé/Ce Nordeste do Brasil
O museu Kanindé localizado na aldeia Sitio Fernandes em Aratuba Ceará nordeste do Brasil existe em um território indígena guardando as “coisas”. Seu fundador e criador José Maria Pereira dos Santos conhecido por cacique Sotero Kanindé reconhecido oficialmente pelo governo do Ceará como tesouro vivo da cultura sendo um mestre da cultura. Em 1995 os Kanindé iniciam seu processo de auto afirmação como povo indígena na região do maciço de Baturité. Essa etnogênese começa segundo o fundador do museu Kanindé cacique Sotero por uma pedrinha a chamada segundo ele por sua ancestralidade de pedra preta que na cosmologia Kanindé significa as “coisas dos índios”. O espaço museológico do povo traduz as coisas que segundo suas cosmologias de entendimento são “as coisas dos índios”, “as coisas dos velhos” e “as coisas das matas” que pertencem a cada significado dos objetos dentro desta temporalidade da memória do povo. O presente trabalho pretende demonstrar como o povo indígena Kanindé relaciona as “coisas” no sistema de classificação de seus objetos no museu intentando as suas praticas de conhecimento histórico antropológico cosmológico nos seus processos próprios de pensar.
Sessione II
Venerdì 22/9/2023, ore 16.45-18.30, aula II Facoltà, Primo piano
Salima Cure Valdivieso (salome116@hotmail.com) (UNAL, Colombia); Laura Lema (lauralema.s@gmail.com) (UNAL, Colombia), Sanaduría: artefactos y dispositivos para explorar sentidos plurales de la paz en Colombia
La ponencia presenta la experiencia de la producción participativa de la exposición: Sanaduría: mediaciones para tejer sentidos plurales de la paz, que, en diálogo con comunidades indígenas y sobrevivientes del conflicto armado colombiano, evidencia el trabajo constante que implica el establecimiento de formas de convivencia que no conciben el conflicto como algo que debe ser resuelto o eliminado, sino más bien como algo que se puede transformar. La traducción museográfica de dichas formas de concebir la paz se compone de dispositivos y artefactos espaciales que denotan la potencialidad política y desestabilizadora de este diálogo intercultural en torno a las nociones de juntanza, abrir caminos, mediar pa-labrar, enfriar y trenzar comunidad como procesos para la transformación de los conflictos. Nuevas narrativas y visualidades contenidas en objetos y dispositivos producidos por los co- investigadores que enriquecen las perspectivas de la construcción de paz en Colombia.
Sandra Ferracuti (sandra.ferracuti@unibas.it) (Università della Basilicata), Relazionalità in mostra
“Partite per un viaggio in altri mondi e scoprite lo straordinario patrimonio d’arte e cultura di popoli lontani”. Questi i toni della comunicazione turistica sul Linden-Museum Stuttgart, dove dal 2016 al 2020 ho diretto il dipartimento “Africa”. Entrata a far parte del numero (alto e in costante crescita) dei residenti di Stoccarda “con background migratorio”, ho messo gli strumenti della museologia critica e dell’antropologia museale riflessiva e collaborativa al servizio di una narrazione museografica (Wo ist Afrika? Storytelling a European Collection, 2019) incentrata sulla sostanza relazionale delle collezioni museali proprio per contrastare il perdurante topos eurocentrico degli “altri mondi” (cfr. Fabian 1983). In mostra sono le concrete relazioni storiche (coloniali) da cui la maggior parte delle collezioni africane derivano, quelle tra membri dello staff del museo e le loro controparti in Germania e nel continente africano a partire dagli anni ‘70 e quelle tra i cittadini che si riconoscono (anche) una appartenenza “africana” e quanti “l’Africa” cercano e ‘consumano’ (al museo e nei festival e i ‘mercati delle culture’ cittadini). Ispirata dall’invito di Ruth Phillips a “esporre le interconnessioni” (2009) e da quello di Arjun Appadurai (2006) a pensare la ricerca in termini di “diritto umano”, la mostra non si limita a narrare relazioni e ambisce a ‘resuscitare’ la relazionalità degli oggetti nelle sale museali per (ri)consegnarne anche ai pubblici il ‘potere’.
Rebecca Sabatini (rebecca.sabatini@phd-drest.eu) (Università di Modena e Reggio Emilia/ Università di Torino), Corpi-oggetti. Storie e semantiche di resti umani esposti
Cosa succede quando i resti umani diventano “oggetti” museali? Quale slittamento più o meno profondo di significato viene messo in pratica quando una mummia o uno scheletro acquisisce un surplus semantico ulteriore e diventa “degno” di esposizione? Quale storia racconta? Quella della persona non più in vita, quella della conservazione del suo corpo e di coloro che hanno collaborato a realizzarla o un complesso intrecciarsi delle due? Tramite due casi studio, illustrati incrociando l’approccio antropologico culturale con quello storico religioso, si offre un tentativo di risposta a queste domande, provando a inquadrare il fenomeno dell’esposizione e della spettacolarizzazione dei resti umani in contesti museali e pseudo-museali nel dibattito sul patrimonio culturale e sulle intersezioni tra turismo religioso, dark tourism e turismo culturale. Descrivendo le coordinate in cui si realizzano e orchestrano le dinamiche di (auto)rappresentazione identitaria e di manipolazione simbolica, si analizzeranno i processi di patrimonializzazione che hanno interessato le mummie delle Catacombe dei Cappuccini di Palermo e del Museo delle Mummie di Burgio (AG), portando all’assunzione a bene culturale dei corpi mummificati.
Renato Athias (renato.athias@ufpe.br) (NEPE/Universidade Federal de Pernambuco), Coleções Etnográficas e Objetos Ritualísticos dos povos do Alto Rio Negro: notas para uma Antropologia dos Objetos
Esta apresentação visa discutir objetos ritualísticos dos povos indígenas da região do Alto Rio Negro que se encontram em museus e, que fazem parte de processo de musealização, de imensas coleções etnográficas, fora de seus lugares de origem. No final do século XIX e início do século XX, esta região, no Noroeste Amazônico, recebeu visita de inúmeros missionários, naturalistas e viajantes que se interessaram pela singularidade dos povos indígenas desta imensa região e, que levaram para seus países de origem na Europa, uma quantidade significativa de objetos, os quais agora fazem parte de acervos museológicos. Grande parte destes objetos são peças únicas e pertencem a diferentes clãs indígenas e formam um conjunto significativo de objetos utilizados nos mais diferentes rituais destes povos. Esta apresentação, consiste em apresentar uma etnografia de alguns destes objetos e discutir seus significados no contextos das cerimônias, possibilitando assim sugerir algumas notas de pesquisa no âmbito da chamada Antropologia dos Objetos.
Sessione III
Sabato 23/9/2023, ore 9.00-10.45, aula II Facoltà, Primo piano
Viviana Luz Toro Matuk (viviana.toromatuk@univda.it) (Università della Valle D’Aosta), Etica ed estetica dell’oggetto “giusto” nell’artigianato valdostano di tradizione
Da una ricerca condotta al MAV – Museo di Artigianato Valdostano di tradizione è emerso che esiste un termine condiviso a livello locale, per connotare un oggetto bello e di qualità: un oggetto ben fatto è definito “giusto” ed è così se è piacevole alla vista e al tatto, se ha caratteristiche di leggerezza e facilità di uso, se i materiali si riconoscono come locali, se si riscontrano le capacità tecniche dell’artigiano. Ciò che uno sguardo esperto chiama giusto evoca ciò che la filosofa Susanne Langer ha definito communion, cioè un senso di profonda unità che trova nei simboli e negli artefatti di una società la propria vitale espressione. Raymond Firth (1992, p. 16) ha definito l’arte come la “percezione dell’ordine nelle relazioni accompagnata da un sentimento di giustezza, non necessariamente piacevole o bello, ma che soddisfa qualche riconoscimento interno di valore”. La produzione e la fruizione di un oggetto artigianale, nel corso della sua biografia culturale per dirla con Igor Kopytoff, trovano un luogo comune, rappresentativo delle forme che gli esseri umani astraggono dal caos di sensazioni, eventi ed emozioni che costituisce il rapporto vitale con l’ambiente e che, se condivise, trasformano il caos in mundus o, ciò Carlo Tullio-Altan ha definito topos o oikos: uno spazio organizzato e dotato di senso, cui un gruppo si sente legato affettivamente, dove il senso condiviso rende possibile la comunicazione e l’incontro con gli altri.
Amarilli Varesio (a.varesio@campus.unimib.it) (Università di Milano Bicocca), La plastica come “moneta sociale”. Nuove reti sociali nel contesto post-bellico del nord dell’Uganda
Approfondendo la biografia culturale di bottiglie e taniche usate a Gulu, nel Nord dell’Uganda, la ricerca mette in luce il ruolo della «vita sociale» (Appadurai, 1986) della plastica che diventa il filo conduttore del mosaico di attori informali (donne e giovani) che operano nel settore del riciclo. Essa viene scambiata in giro, articolando le relazioni tra i partecipanti spinti da motivazioni che vanno oltre la ricerca dei mezzi di sostentamento. Nei quartieri di Laybi e Laroo di Gulu, che furono rifugio di centinaia di migliaia di sfollati interni durante la guerra civile, la plastica è una «moneta sociale» (Graeber, 2012) che garantisce l’accesso a fonti di reddito, cittadinanza e relazioni di sostegno a lavoratori autonomi con poca istruzione formale e nessun capitale da investire. Guardando alla plastica con una «lente relazionale» (Wittmer, 2020), grazie alla circolazione di questo materiale si creano nuove reti sociali che permettono alle persone di affrontare le difficoltà quotidiane e di ricostruire la propria vita in una condizione di sfollamento prolungato, dove la mancanza di legami sociali fondamentali, spezzati dalla guerra, ha generato un processo di migrazione forzata e di emarginazione verso la città.
Roberta Fiorina (r.fiorina@campus.unimib.it) (Università di Milano Bicocca), La contraffazione dell’arte Indigena in Canada tra impatto culturale e rivendicazioni
Si stima che il giro d’affari legato alla contraffazione dell’arte Indigena in Canada valga centinaia di milioni di dollari l’anno. I falsi, prodotti in particolare in Asia, inondano continuamente il mercato e vengono venduti insieme alle opere degli artisti Nativi, senza una chiara distinzione. A livello economico la cosa impatta negativamente sia le First Nations, sia i compratori truffati, ma l’aspetto più critico è indubbiamente il furto della proprietà culturale. L’arte, veicolo di valori simbolici, storici e spirituali, attraverso la contraffazione viene risignificata a merce di scarsa qualità, che circolando intacca la reputazione della tradizione artistica stessa. In un contesto post-coloniale complesso, nel quale i tentativi di riconciliazione tra i gruppi Nativi e le istituzioni nazionali non hanno mai portato a risultati duraturi, i falsi divengono rappresentazione concreta di un rapporto mai sanato e delle dinamiche di potere che tutt’ora lo dominano. Il fatto che lo Stato non intervenga per controllare l’importazione di oggetti contraffatti, nonostante le richieste avanzate dalla First Nations sin dagli anni 30, e che permetta lo sfruttamento della loro proprietà culturale, dimostra che la posizione delle comunità Native nella società canadese è ancora oggi di subalternità. Lo scopo del paper è riflettere sull’impatto culturale della produzione e circolazione dei falsi sulle Nazioni indigene in Canada e sulle azioni da loro intraprese per rispondere al problema.
Federica Villa (f.villa80@campus.unimib.it) (Università di Milano Bicocca / MUDEC), Relazionalità del prodotto tessile andino come arte commerciale e turistica
L’arte turistica in tutte le sue forme, costituisce una categoria di “cose” che implica una complessa serie di relazioni, sia che si tratti di arti “pseudo-tradizionali” le quali, pur essendo finalizzate alla vendita, aderiscono ai canoni estetici e formali del contesto culturale nel quale vengono prodotte, o che si parli di “souvenir” in cui le esigenze culturali del produttore sono meno rilevanti rispetto alle aspettative del consumatore, cosa che porta all’essenzializzazione del contenuto simbolico dell’oggetto. In ogni caso, nel momento in cui il prodotto si sposta tra un estremo e l’altro del mercato, forma diversi tipi di relazione e, a seconda della vicinanza tra produttore e consumatore, è possibile che si creino dei vuoti di conoscenza e dei processi di re-significazione. In questo senso, i prodotti tessili andini provenienti dalla zona del Cusco costituiscono un caso studio interessante. Si tratta infatti di un bene di mercato con grande valore simbolico locale e anche particolarmente richiesto sia a livello nazionale che internazionale all’interno di un contesto complesso: da un lato, il brand ufficiale Marca Perù si basa sulla definizione di una identità peruviana che esalta i gruppi indigeni presenti sul territorio e le loro produzioni artigianali, dall’altro, negli ultimi anni si è sviluppata un’esigenza locale e comunitaria di salvaguardia di questa espressione culturale che aveva rischiato di andare perduta durante la seconda metà del XX secolo.