Antonio Marazzi ha svolto un ruolo importante nello sviluppo dell’antropologia italiana e dell’antropologia in Italia.
L’ho conosciuto nel 1985 alla Facoltà di Psicologia dell’Università di Padova dove con coraggio e aplomb porgeva a una massa di studenti eterogenei, stipati in strutture fatiscenti del centro storico, i testi fondamentali di una disciplina allora pochissimo considerata. Era un insegnante sincero e scrupoloso. Credo che volesse renderci partecipi della stessa soddisfacente meraviglia che aveva colto lui quando, laureato in matematica e già al lavoro come giornalista free-lance, dopo aver letto il suo primo Lévi-Strauss aveva voluto riprendere gli studi negli Stati Uniti e poi in Inghilterra proprio per fare quella cosa lì – l’antropologia, che gli sembrava fornire strumenti adatti a leggere una contemporaneità mutevole e complicata.
Marazzi era motivato da una necessità di comprensione concreta. Il suo primo campo di ricerca etnografica, una comunità di Tibetani rifugiati in Svizzera, gli era apparso all’incrocio di un sentiero alpino; con il proseguire degli studi quel campo aveva suscitato un interrogativo sociale e culturale più ampio e comportato una ricerca sull’esodo tibetano in India; si era articolato in una relazione individuale con il penultimo Dalai Lama; infine, si era esteso allo studio del buddismo transnazionale e, più in particolare, giapponese. Nella costruzione di un campo di studi incentrato su un flusso culturale e umano (un’occupazione politica, un esodo forzato e la globalizzazione delle religioni) che chiede di essere osservato ed esperito su scale diverse, Antonio Marazzi ha precorso i tempi. Accessoriamente, ha sviluppato negli anni un’area di studi, l’area himalayana e l’Asia in genere, ancor oggi poco praticata dall’antropologia italiana.
Pur mantenendo sempre un certo riserbo, Marazzi credeva nell’importanza delle sue passioni. Ha amato l’ibridarsi di cinema e antropologia e si è impegnato a diffondere la teoria e la pratica del cinema etnografico contribuendo a fondare il Festival dei Popoli, proponendo l’antropologia visiva come materia d’insegnamento e creando network internazionali – network spesso fra piccole realtà ma questo è il cinema etnografico. Alla base stavano una fascinazione estetica, sensoriale, intellettuale e critica per le immagini e la convinzione dell’irriducibilità dell’esperienza multisensoriale (la ricerca, il campo ma anche la ricerca d’archivio) all’unica parola scritta. Nel corso di Perfezionamento in Antropologia, costruito e lungamente diretto all’Università di Padova quando i dottorati italiani erano pochi e appena istituiti, la teoria e la pratica dell’antropologia visuale hanno così avuto molto spazio. Lo studio delle immagini e della loro produzione avrebbe condotto Antonio a studiare gli artisti e il loro universo e, ultimamente, a riflettere sulla costruzione e la diffusione di un mondo virtuale e dello sguardo da esso reso possibile. Il suo ultimo libro sull’argomento è uscito nel 2022 e contiene ancora la commistione di atteggiamento incantato e critico che il suo autore aveva per le rappresentazioni culturali. Al di là dei debiti intellettuali e scientifici, commentando fra ex-allievi, oggi amici e anche colleghi, la morte improvvisa di Antonio Marazzi, ci siamo tutti ritrovati a evocare il suo animo gentile e attento, mai identificato con l’orizzonte intellettuale e istituzionale internazionale nel quale pur viveva e agiva. Curioso e disponibile, pronto a venire a seguire una lezione, andare al cinema o a bere un bicchiere Antonio non intimidiva, casomai stupiva i più giovani.
Stupisce oggi la sua assenza.